Pittore che si è imposto all’attenzione della critica più attenta nell’immediato dopoguerra per la trattazione del paesaggio carsico, Enrico De Cillia espone Mattino alla collettiva di Palazzo Reale a Venezia nel 1942 tra gli artisti gravitanti nell’Opera Bevilacqua La Masa. Opera dunque importante, questa della Fondazione, che permette di accostarsi alla pittura pastosa – e già tendente ad un’inquietudine paesaggistica – del carnico agli inizi degli anni Quaranta. Dopo esiti come questo, egli si inserirà nel solco di quella pittura neorealista, seguendo l’esempio dei conterranei, giungendo alla descrizione di territori deserti, materici e pervasi da atmosfere spettrali. Ne è un nitido esempio il Castello di Gorizia, non lontano da certe soluzioni di Renzo Vespignani, dove la luce non gioca un ruolo di descrizione del paesaggio, ma uno schiacciamento quasi fisico dello spazio tendente a comunicare uno stato d’animo oppresso. Delicatissima, e questo la dice lunga sulla versatilità d’un pittore troppo spesso considerato per il suo paesaggismo carsico, è la conduzione all’acquerello e matita con la quale descrive la chiesa Sant’Antonio Taumaturgo a Trieste; l’architettura, al pari delle barche, pare affiorare dalla carta come dall’acqua. Se consideriamo che Carso e Timavo (Trieste, collezione Università degli Studi) fu esposta alla Biennale Triveneta di Padova del 1957, possiamo affermare che Trieste possiede dell’artista opere importanti per la ricostruzione del suo profilo. Nel 1975 il pittore donò buona parte della sua produzione al paese natale di Treppo Carnico, dove oggi è possibile avere un’idea completa dell’iter artistico presso la pinacoteca a lui intitolata.
La Collezione d’Arte

Enrico De Cillia
Castello di Gorizia
Acquerello e tempera su cartone; cm 72,5 x 52,8