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La Collezione d’Arte
Guglielmo Grubissa
Parenzo
Acquerello su carta bianca, cm 38,9 x 49,4

Originario di Pola, Grubissa si trasferì definitivamente a Trieste, dopo un duro periodo di prigionia in Germania, a partire dal 1945. La grande fortuna dei suoi acquerelli (tecnica che non abbandonò mai e che fino al 1946 fu esercitata esclusivamente) è testimoniata presso le collezioni con un numero corposo di pezzi. Il nucleo che maggiormente attrae per motivi artistici e documentari, è quello delle opere datate al 1952, ovvero quando l’importante personale del pittore si tenne alla Galleria Rossoni, trovando in Decio Gioseffi un critico appassionato nelle pagine de Il Giornale di Trieste il 3 dicembre. E proprio in questa prima metà degli anni ’50 Grubissa condensa la sua attività accompagnato dai vari articoli di Gioseffi, che per lui scrive pure nelle pagine de Il Piccolo sino al 1962, in un connubio davvero inscindibile. Forse l’articolo più interessante in questo senso è quello scritto proprio su Il Piccolo il 7 marzo 1957, quando l’attento critico cerca di far capire il passaggio dall’acquerello all’olio da parte del pittore, con tutte le difficoltà che da questo ne deriva. Le opere datate al 1952 presenti nelle collezioni della Fondazione sono quattro, un dipinto ad olio e tre acquerelli che mostrano chiaramente la freschezza e sicurezza di Grubissa: Ponterosso, acquerello davvero acquatico nella fluidità del colore e nella fusione tra disegno, linee e macchie, una sgargiante veduta dal colle di San Giusto di tono quasi anglosassone nella resa attenta e delicata, una Sacchetta, meraviglioso tratto sulle rive di Trieste immortalato con altrettanta capacità dal poeta Pier Antonio Quarantotti Gambini non molto tempo prima (1947) e l’olio su tavola, avente sempre per soggetto il Canale a Ponterosso, che diviene neo-settecentesco, in una cifra tipica nel passaggio ad una tecnica più cupa da parte di un acquerellista delicato. Assolato e vasto lo spazio creato nell’acquerello con lo scorcio presso il Teatro Romano, dove la rovina si confonde con le case sullo sfondo mentre, sorprendente per contrasto, il Porticciolo di Muggia del 1958, realizzato con la tecnica ad olio su tavola che permette a Grubissa, con grande originalità, di segnare e accendere la superficie con fenditure di bianco, ruvide e poetiche al contempo. Allo stesso momento appartiene pure l’olio Barche in Sacchetta, dove la forte bidimensionalità è accentuata da una pennellata esclusivamente verticale che dà il senso di una cortina piovosa. Ritorna pure il soggetto legato al colle di San Giusto, sebbene le due ulteriori versioni non abbiano la freschezza di quella del 1952 e pare interessante la Piazza Unità colta da un’angolazione fortemente scorciata. La stanchezza nei soggetti triestini induce il pittore a vagare per l’Istria e la sua terra d’origine, traendone nuovi stimoli e nuovi raggiungimenti formali, a tratti anche monocromi, ma sempre di sicura qualità; fanno pendant, ad esempio, le vedute di Parenzo e Umago, descritte con le medesime cromie, dal tratto brevilineo e nervoso. Le principali città istriane vengono immerse in un’atmosfera assolata: l’Arco dei Sergi a Pola, L’Arco romano a Fiume, la Torre della città di Fiume e lo scorcio di Capodistria paiono avere le stesse comparse tanto è l’interesse per Grubissa di creare una precisione dell’architettura inserita nel suo paesaggio, come avrebbe fatto l’acquerellista italiano di riferimento in quel momento, Aldo Raimondi. Diverso è il paesaggio montano, che Grubissa frequenta con più attenzione a partire dal 1954. Evidentemente certo bozzettismo ottocentesco alla Cargnel doveva essere ineludibile, poiché tali (nonostante una certa fluidità nella pennellata) sono Sappada restituita all’acquerello, e i due oli Baita sullo Stelvio e Risveglio, quest’ultimo fortemente vicino al pittore sappadino Pio Solero. Più felici sono le opere maturate a contatto con il paesaggio carsico; Strano Carso, acceso da un colpeggiare continuo sulla tavola, opera finita e ben riuscita ma soprattutto, del 1965, Alberi e prati a Basovizza dove ritroviamo, a certa distanza cronologica, quella vivacità del colorire del Grubissa acquerellista.

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